Di femminismo ne parlano tutti; soprattutto, ne parlano tutte. A grandi linee se ne conosce la genesi – a grandi linee perché, per esempio, chi sia Mary Wollstonecraft lo sanno in pochissimi; per la cronaca, è l’autrice della biografia che diede origine proprio al movimento nel 1792 – e, in maniera piuttosto “confusa”, si crede di sapere quale sia (o non sia) il suo attuale valore. La verità è una: nelle sue declinazioni storiche e geografiche, il femminismo si configura come una specie di contenitore concettuale talvolta molto vasto e dai confini vaghi; alla base vi è la consapevolezza che nascere donna porti con sè una condizione di svantaggio nella società; però, chiaramente, questa condizione assume sfumature differenti in relazione al periodo storico e al luogo: banalmente, essere donna un secolo fa, voleva dire, specie in certi contesti, non avere accesso all’istruzione; oggi, invece, si traduce nell’essere molto competenti ma, nonostante ciò, non riuscire ad accedere alle posizioni di vertice. Quindi, a un livello potremmo definire “universale”, femminismo come rivendicazione di dignità (oltre che di indipendenza) della donna, declinata in molti modi.
Noi – in linea con la pluralità di interpretazioni, voci, paradigmi e quant’altro -, da oggi, vogliamo proporvi il pensiero di alcune studiose a riguardo. Cominciamo con Adriana Cavarero, Docente di Filosofia Politica presso l’Università di Verona.
” […] il concetto di essere umano desessuato assume, senza residui, la pretesa universalità del paradigma maschile, il paradigma stesso si occulta infatti definitivamente e perciò potenzia i suoi massimi effetti omologanti […] L’uomo del futuro non discriminerà più fra uomini e donne. Sarà Uomo e basta, mascherato sotto il nome di individuo o di persona”.
Secondo la Docente (il pezzo è estrapolato da “Le filosofie femministe” ), l”idea di “cancellare”, non prendere in considerazione, la differenza di genere non è un passo in avanti – come molti credono – ma una sconfitta: parlare nei termini di individuo – in linea con il principio di uguaglianza sorto durante l’Illuminismo – finirebbe per “appiattire” la donna al modello maschile. Questa ipotetica “persona neutra” che dovrebbe “inglobare” identità maschile e femminile, in realtà, è una “persona uomo” (da sempre uomo e solo uomo). Siamo dinanzi a un processo di omologazione quindi: “individuo” comprende anche donna nel senso etimologico del termine, ovvero “prende” la donna e la porta dentro un significato costruito sulle fattezze maschili. Da tutto ciò, comprendiamo come – in questo caso come del resto sempre – più che “appiattire” la diversità, sarebbe il caso di riconoscerla e farne un punto di partenza per nuove considerazioni: l’uomo è sempre stato il soggetto e la donna l’oggetto perché non è mai stata riconosciuta una differenza fra uomo e donna, ma una differenza della donna rispetto all’uomo; il soggetto femminile è stato definito, non solo da quello maschile (quindi non si è auto-rappresentato nella società), ma addirittura è stato definito in modo speculare, “per mancanza” potremmo dire. Simone de Beuvoir, quando affermava che donna si diventa, intendeva proprio questo: è la società a decidere cosa significhi e implichi essere donna. E non va bene.